Diritto penale in azione
Sentenze che hanno fatto la storia della scienza penale
 
Tipicità

Corte costituzionale, sentenza 14 giugno 1956, n. 1
Tassatività -Si tratta della prima pronuncia della Corte costituzionale, con la quale viene risolta positivamente la fondamentale e preliminare questione sulla competenza a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anteriori alla data di entrata in vigore della Costituzione. Di conseguenza, la Consulta procede a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 113 commi 1, 2, 3, 4, 6 e 7 T. U. di pubblica sicurezza per la violazione delle quali si applica la sanzione prevista dall’art. 663 c.p., in virtù del contrasto con l’art. 25 cpv. Cost.: l’indeterminatezza originaria della norma si traduce in un’eccessiva estensione dei poteri discrezionali dell’autorità di pubblica sicurezza, dal momento che non appare in alcun modo delineata la sfera entro la quale debbano essere contenuti le attività di polizia e l’uso dei poteri di questa. 


Corte costituzionale, sentenza 19 dicembre 1968, n. 126
Irragionevolezza della discriminazione - Declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 559/1 c.p. che incrimina l’adulterio della sola moglie. Il vaglio di costituzionalità è condotto alla luce dell’art. 29 Cost., che regola specificamente i rapporti tra i coniugi, sancendone, da un lato, l’uguaglianza, e, affermando, dall’altro, il principio di unità familiare. Ad avviso della Corte, il secondo interesse sarebbe prevalente rispetto al primo. Pur precisando che le scelte di criminalizzazione costituiscono questione di politica criminale che competono unicamente al legislatore, tuttavia la Corte può valutare se la discriminazione a carico della moglie creata dall’art. 559/1 sia essenziale per garantire l’unità familiare, dovendo altrimenti censurarla. Interessante la motivazione che si basa fondamentalmente sulla contestualizzazione della previsione. Si osserva in sentenza che il principio secondo il quale la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale da parte del marito debba restare impunita, mentre l’atto di infedeltà della moglie debba essere penalmente sanzionato, appare il retaggio di un’epoca remota, nella quale la donna, considerata giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Ma nell’odierna società, questa discriminazione, lungi dall’essere utile, si rivela addirittura dannosa per la concordia e l’unità familiare, dal momento che lede la stessa dignità della donna. Il pericolo si dimostra di proporzioni ancor più gravi dal punto di vista del comportamento di entrambi i coniugi e per i differenti risvolti psicologici, di fronte alla disparità di trattamento. Risulta, pertanto, accertato che questa discriminazione, lungi dal garantire l’unità familiare, si rivela più che altro un privilegio accordato al marito. Come tutti i privilegi, anch’esso viola il principio di parità che merita di essere espunto dall’ordinamento.


Corte costituzionale, sentenza 8 luglio 1971, n. 168 
Tassatività – Dichiarazione di legittimità costituzionale dell’art. 650 c.p. in relazione all’art. 25/2 Cost., motivando nel senso che la «materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi e si pone in essere col rifiuto cosciente e volontario di osservare un provvedimento dato nelle forme legali dall'autorità competente per sussistenti ragioni di giustizia, sicurezza, ordine pubblico, igiene.» e, più in generale, affermando che le norme penali in bianco sono compatibili con il principio di legalità nella misura in cui sia una legge dello Stato, anche distinta dalla norma incriminatrice, ad indicare i presupposti, i carattere, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell’autorità amministrativa, alla cui trasgressione l’art. 650 c.p. riconnette la sanzione penale. «Spetta al giudice indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato emesso nell'esercizio di un potere-dovere previsto dalla legge e se una legge dello Stato determini "con sufficiente specificazione" le condizioni e l'ambito di applicazione del provvedimento. La riserva di legge é così rispettata (…)». D’atro canto, la Corte precisa che, secondo unanime dottrina e costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, sia doverosa per il giudice, l'indagine volta a sindacare il possibile eccesso di potere da parte dell'autorità che ha emesso il provvedimento. 
Infondato é pure il timore che la norma dell'art. 650 del codice penale possa violare il principio di uguaglianza, in quanto commina la medesima sanzione per l'inosservanza dei più diversi e variamente motivati provvedimenti della pubblica autorità. Oggetto del reato in esame sono il turbamento della tranquillità e dell'ordine pubblico, beni che possono bensì venir offesi in infiniti modi, ma rimangono pur sempre gli stessi, come é uguale in tutti i casi la condotta del perturbatore, consistente nel rifiuto di ottemperare a un provvedimento legittimo. Inutile aggiungere, a fronte della chiarezza della formulazione della norma, che i limiti di pena prevista (dal minimo dell'ammenda fino a tre mesi d'arresto) consentono al giudice un ampio margine di discrezionalità.


Corte costituzionale, sentenza 8 giugno 1981, n. 96
Tassatività/sufficiente determinatezza - Dichiarazione di illegittimità costituzionale del plagio (art. 603 c.p.) per contrasto con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, che assorbe l’ulteriore censura di incostituzionalità rispetto all’art. 21 Cost. La motivazione della sentenza si articola in una preliminare interpretazione storica della fattispecie incriminatrice, soffermandosi sulle accezioni del reato nell’epoca romana. Nel linguaggio giuridico del III a.C., il termine designava l’azione di impossessarsi, trattenere i fare oggetto di commercio di un uomo libero o uno schiavo altrui. Fino all’inizio dell’età moderna, il reato di plagio era inerente all’istituto giuridico della schiavitù, inteso come stato della creatura umana, non avente personalità giuridica. A partire dalla fine del XVIII secolo, con la progressiva accettazione del principio di uguaglianza dello stato giuridico della persone e con la conseguente progressiva abolizione dell’istituto della schiavitù, fino alla Convenzione internazionale di Ginevra del 1926 e di quella del 1956, si è necessariamente trasformata la nozione del reato, attraverso l’inserimento tra i delitti contro la libertà individuale. Ma soltanto a partire dal codice Rocco, il termine 0plagio assume un significato del tutto nuovo, espresso attraverso l’inciso: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da indurla in totale stato di soggezione». Appare da subito problematica la definizione del concetto di “stato di soggezione”. Le poche pronunce giurisprudenziali degli anni ’60, tra cui quella della Corte di Cassazione del 1961, avevano affermato la natura psichica del plagio e dei suoi elementi costitutivi, in quanto il plagio si concretizza sul piano giuridico, nella «cosciente e volontaria instaurazione, con qualunque mezzo attuata, di un assoluto dominio psichico e eventualmente fisico, su di una persona, nella negazione della sua personalità per effetto della soppressione della libertà nelle essenziali sue manifestazioni.». Lo stato di soggezione equivale all’annientamento del determinismo della vittima. L’interpretazione data rende evidente l’impossibilità di riscontrare nella realtà un totale stato di soggezione. La Corte non trascura, in proposito, di soffermarsi sulle indagini condotte dalla scienza medica in merito alla differenza tra persuasione, suggestione e soggezione psichica. Questa analisi consente di osservare, come l’accertamento di un processo psichico tra soggetti si traduca, sul piano giudiziario, in esiti del tutto incerti ed affidati all’arbitrio del giudice. L’indeterminatezza della norma si profila anche sotto un altro aspetto: «non è dimostrabile, in base alle attuali conoscenze ed esperienze, che possano esistere esseri capaci di ottenere con soli mezzi psichici l’asservimento totale di una persona». Lo stesso concetto di deprivazione psichica che s’identifica con il senso di avere bisogno di qualcuno, è essenzialmente quantitativo. Ad esso può darsi una risposta interamente soggettiva, di per sé convalidante dell’arbitrarietà di qualsiasi soluzione. E’ evidente, allora, che l’art. 603 c.p., di per sé inapplicabile, si attualizza nella giurisprudenza e nella dottrina in forza di un’interpretazione analogica, tesa ad assimilare gli stati realizzabili di quasi totale soggezione allo stato irrealizzabile di totale soggezione. 


Corte costituzionale, sentenza 18 luglio 1989, n. 487 
Riserva di legge penale statale – dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3/1 legge regionale siciliana 15/05/1986, n. 86 (Norme integrative della legge regionale 10 agosto 1985, n. 37, relative a “Nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino edilizio e sanatoria delle opere abusive”).
La legge viene identificata anche dalla stessa Costituzione, all’art. 25/2, la “forma istituzionale”
di legge del diritto penale. L’origine storico-ideologica del principio della riserva: riconduzione ad unità delle sparse, frammentarie disposizioni giuridiche, la certezza che soltanto attraverso il superamento delle varie, numerose fonti, sostanziali e formali, dell’Ancien regime, si potesse raggiungere la massima garanzia della riconquistata libertà individuale ed il massimo ordinato vivere sociale. Nella Legge dello Stato, intesa come unità organica dell’intero popolo, fu quindi ravvisato il nuovo fondamento del diritto penale. Gli illuministi individuarono il fondamento del principio della riserva di legge penale, nel fatto che il soggetto-Parlamento, quale organo produttore della legge, riunisse, attraverso tutti i suoi rappresentanti, l’intero popolo sovrano: evidentemente questo non avrebbe mai legiferato contro se stesso. La dottrina odierna concorda sul fondamento dell’attribuzione del monopolio penale in capo al Parlamento, in base alla rappresentatività di quest’organo politico dell’intera società, unita tramite “contratto sociale”. Non va trascurato, d’altro canto, che statali sono i particolari interessi e valori tutelati dall’ordinamento penale e statale è anche il fine perseguito attraverso le incriminazioni: la tutela di tutto l’ordinamento giuridico statale a garanzia della vita sociale in libertà, uguaglianza e reciproco rispetto dei soggetti. Non può invece accogliersi l’opinione che l’ordinamento giuridico appresti sanzioni diverse per identici interessi. Se l’attuale lettura della Costituzione induce a confermare la statualità del ramo penale dell’ordinamento, è da ritenersi costituzionalmente inestensibile alle Regioni la potestà normativa penale. Estremamente significativa è anche la prospettiva inerente la funzionalità del principio della riserva di legge penale. Da questo punto di vista, occorre notare che l’art. 25 Cost. attui un generico riferimento alla legge; dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la legge regionale non possa essere ritenuta atto subordinato alla legge statale. Soccorre allora l’aspetto sostanziale della riserva di legge: il Consiglio regionale non appare infatti la sede più idonea di scelta e fissazione di precise direttive di politica criminale. La criminalizzazione comporta, anzitutto una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell’intera società: e tale scelta non può esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per proprio conto) per la mancanza di’una visione generale dei bisogni e delle esigenze dell’intera società. A proposito dei limiti sostanziali posti al legislatore, vanno ricordati i principi di sussidiarietà, proporzionalità e frammentarietà, i quali implicano il possesso di una visione generale dei beni e dei valori presenti nell’intera Comunità statale e limitano ulteriormente, nell’atto in cui le fondano, le scelte di criminalizzazione.
Infine, in ordine ai rapporti tra legge statale incriminatrice e legge regionale, la Corte precisa che alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali, né concorrere ad attuare le stesse norme, nel senso che non è loro precluso realizzare funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali. Va, poi ricordato che ampio spazio alle Regioni in materia penale viene accordato da dottrina a giurisprudenza, quando le leggi statali subordino effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi o(legislativi) regionali, finendo per incidere indirettamente sulle fattispecie penali previste dalle leggi statali.


Colpevolezza

Corte costituzionale, sentenza 23 marzo 1988, n. 364
Scusabilità dell’errore inevitabile della legge penale - Storica pronuncia di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dal principio di inescusabilità dell’ignoranza della legge penale, l’ignoranza inevitabile.
La pronuncia prende le mosse da una condanna alla contravvenzione di cui all’art. 17, lett. B) legge 28 gennaio 1977, n. 10 per aver eseguito notevoli opere di bonifica di un terreno agricolo e per finalità agricole, con esclusione di ogni intento edificatorio. Ritenendo gli imputati meritevoli di proscioglimento, avendo agito in buona fede e sulla base della giurisprudenza del Consiglio di Stato,  il giudice a quo ritiene di dover sollevare questione di illegittimità costituzionale degli art. 5, 42/4, 43 47 e 17, lett. b), l. 10/1977, nella parte in cui non contemplano la rilevanza della precipitata “buona fede”, determinata da interpretazioni della giurisprudenza del supremo consesso di giustizia amministrativa. 
I giudici ritengono indispensabile partire dalle cause, remote o prossime, dell’ignoranza ed estendere di conseguenza l’indagine al preliminare stato delle relazioni tra ordinamento giuridico e soggetti, in particolare al rapporto tra l’ordinamento e l’autore del fatto illecito. Attraverso una ricostruzione storica e di diritto comparato, si evince come il principio di irrilevanza dell’ignoranza di diritto non sia mai stato positivamente affermato nella sua assolutezza, né, secondo recente dottrina, trovi oggi convincente sistemazione dogmatica. Infatti, la presunzione juris et de jure e la finzione di conoscenza della legge penale s’inseriscono in un contesto che si sviluppa dall’opposto principio dell’essenzialità al reato della coscienza dell’illiceità. La Corte approfondisce il concetto di colpevolezza dell’art. 27/1 Cost., differente rispetto alla tradizionale colpevolezza quale criterio subiettivo della fattispecie penalmente rilevante. La “nuova” accezione, nelle moderne concezioni sulla pena, assolve la funzione di limite alla discrezionalità e quindi all’intervento punitivo del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili, a garanzia del singolo, attraverso la necessità di requisiti minimi d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può legittimamente essere sottoposto a pena. In questo senso, il principio di colpevolezza, più che completare, costituisce il secondo aspetto del principio garantisco di legalità, vigente in ogni Stato di diritto. Dal collegamento tra il 1° ed il 3° comma dell’art. 27 Cpst., risulta insieme con la necessaria rimproverabilità della personale violazione normativa, l’illegittimità costituzionale della punizione di ftti cghe non siano espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza espressi dalle norme penali. Le basilari norme costituzionali in materia penale tendono a garantire al cittadino la sicurezza giuridica di non essere puniti ove vengano realizzati comportamenti penalmente irrilevanti, svelando altresì la funzione di orientamento culturale e di determinazione psicologica operata dalle leggi penali. «Non è senza significato che il principio di costituzionalità, inteso come riserva di legge statale sia stato espressamente costituzionalizzato, in sede penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni giuridiche, la Costituzione intende garantire i soggetti attraverso la previa lex scripta. I principi d tassatività e di irretroattività delle norme penali incriminatrici, nell’aggiungere intende garantire i cittadini, attraverso la possibilità di conoscenza della stesse norme, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte d’azione».
Il problema centrale attiene, rispetto alla risoluzione della questione ai doveri strumentali di conoscenza delle leggi incombenti sui destinatari dei precetti penali e, conseguentemente, ai limiti dei predetti limiti. Posto che, sul privato incombono strumentali specifici doveri d’informazione e conoscenza, come diretta esplicazione dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., deve sussistere anche l’effettiva possibilità di conoscere la legge penale quale ulteriore requisito subiettivo minimo di imputazione, a sua volta desumibile dagli artt. 2, 3/1 e 2, 73/3 e 25/2 Cost.
La Corte si sofferma anche sui parametri in base ai quali stabilire l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale: deve trattarsi di criteri oggettivi puri (impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di tutti i consociati) o, al più, misti (l’inevitabilità può essere determinata anche da particolari positive, circostanze di fatto in cui s’è formata la deliberazione criminosa
L’art. 5 c.p. risulta così riformulato: «L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti di ignoranza inevitabile».


Corte costituzionale, sentenza 13 dicembre 1988, n. 1085
Contenuto della Colpevolezza - Dichiarazione di illegittimità costituzionale del furto d’uso (art. 626/1 c.p.) nella parte in cui estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore della cosa sottratta. Il furto d’uso si distingue rispetto al furto comune per la presenza nel reo, fin dall’origine, della specifica intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l’uso momentaneo. La norma viola l’art. 27/1 Cost. in quanto la mancata restituzione dovuta a caso fortuito o a forza maggiore della cosa sottratta non può essere addebitata legittimamente al soggetto attivo del fatto. La restituzione della cosa sottratta costituisce sicuramente elemento essenziale e particolarmente significativo della fattispecie e la sua mancanza deve essere considerata in senso oggettivo. Tuttavia, la Corte esclude che possa essere accolta la tesi sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza secondo la quale, in virtù della massima “qui in re illicita versari respondit etiam pro casu”, si debba rispondere per furto comune nel caso di mancata restituzione per caso fortuito o forza maggiore. Ricollegandosi all’interpretazione dell’art. 27/1 Cost. elaborata nella sentenza n. 364/1988, la Consulta ritiene essenziale quale requisito suppletivo di imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell’azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento suriettivo tra autore del fatto ed il dato significativo addebitato (cioè la mancata restituzione).


Corte costituzionale, sentenza 18 luglio 1989, n. 409
Extrema ratio, sussidiarietà e proporzione  - Dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza) come sostituito dall'art. 2 della legge 24 dicembre 1974, n. 695 (Modifiche agli artt. 2 e 8 della legge 15 dicembre 1972, n. 772, recante norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza) nella parte in cui determina la pena edittale ivi comminata nella misura minima di due anni anziché in quella di sei mesi e nella misura massima di quattro anni anziché in quella di due anni.
La Corte valuta la legittimità della norma rispetto ai principi di meritevolezza, proporzione e sussidiarietà del diritto penale, dei quali fornisce una precisa definizione. Rigettati i sospetti di incostituzionalità rispetto a questi parametri ricavabili dallo stesso art. 25 Cost., accerta invece la fondatezza della censura relativa alla sproporzione della pena comminata dall’art. 8/2 delle legge in esame, per la fattispecie di rifiuto in tempo di pace del servizio militare prima di assumerlo, rispetto alle pene comminate per la fattispecie di cui all’art. 151 c.p.m.p., ossia per la mancanza alla chiamata. I giudici osservano che entrambe le fattispecie ledono, con modalità analoghe, uno stesso interesse, ossia quello di una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell’organizzazione militare. La notevole disparità di trattamento penale tra il militare che rifiuta il servizio militare adducendo motivi di coscienza (pena edittale da due a quattro anni), ed il militare che,  mancando alla chiamata, sostanzialmente rifiuta lo stesso servizio militare senza alcun motivo o per motivi futili (pena edittale da sei mesi a due anni) si traduce in una arbitraria e sproporzionata severità nei confronti del militare che adduce, a giustificazione del suo delitto, motivi di coscienza.



Sanzioni

Corte costituzionale, sentenza 27 marzo 1962, n. 29
Inderogabilità della pena - La Corte dichiara non fondata la questione di illegittimità costituzionale dell’istituto della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva (artt. 135 - 136 c.p.) rispetto agli artt. 2, 3 e 13/1 Cost. In merito alla violazione dell’art. 2 la Corte osserva che non sussiste contrato con la prima norma che riconosce e garantisce, in generale, i diritti inviolabili dell’uomo, rimandando alle disposizioni specifiche in cui tali diritti vengono presi in considerazione. L’art. 13/1, invece, riguarda, nello specifico, soltanto la tutela contro le restrizioni arbitrarie della libertà personale, nella cui nozione non può essere ricompresa la carcerazione a seguito della conversione della pena pecuniaria, eseguita per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei casi e modi previsti dalla legge.
Viene respinta anche l’ipotesi del contrasto con il principio di uguaglianza, sulla base della giustificazione della peculiarità dell’istituto. Ad avviso della Corte esso assolve la funzione di garanzia del carattere inderogabile della pena, che consiste nella necessità che alla sua esecuzione comunque si addivenga. Il coefficiente fondamentale che ricompone e livella ogni disparità di trattamento conseguente alla conversione è ravvisato nel principio per cui tutti i soggetti, di qualunque condizione essi siano, siano pari anche di  fronte al reato. Pertanto, la conversione della pena detentiva viene declinata come riaffermazione e non negazione del principio di uguaglianza.


Corte costituzionale, sentenza 21 novembre 1979, n. 131
Inderogabilità della pena - La Corte costituzionale torna a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 136 c.p. (conversione della pena pecuniaria in pena detentiva) alla luce degli artt. 3 e 27/3 Cost., quali parametri di riferimento. Si censura l’equiparazione precedentemente operata tra inderogabilità ed indifferibilità della pena, sostenendo che tale prospettazione sia frutto di una valutazione statica ed immutabile dell’insolvibilità, ancorata ad una concezione ottocentesca del patrimonio personale, propriamente tale solo se consistente in beni immobili. Nella traslazione della pena dai beni alla persona del condannato insolvibile si ravvisa, dunque, il retaggio di concezioni arcaiche, basate sulla fungibilità tra libertà e patrimonio personale. Il principio di uguaglianza risulta pertanto leso dal meccanismo di conversione che opera esclusivamente a fronte dell’accertata insolvibilità del condannato, nella misura in cui determina un aggravamento della pena inflitta dal giudice. In sostanza, tale istituto altera il rapporto di proporzionalità tra la gravità del reato e la capacità a delinquere, da un lato, e la specie e quantità di pena irrogata, dall’altro, discrezionalmente determinata dal giudice nei limiti e secondo i parametri di legge. Per effetto delle condizioni economiche del condannato, derivano conseguenze sanzionatorie diseguali da responsabilità ritenute di pari intensità nella violazione della medesima norma incriminatrice, fino a far scontare al condannato insolvibile, quando i fatti siano punibili con la sola pena pecuniaria, una pena di specie diversa e più grave di quella comminata nella previsione generale ed astratta del legislatore.
Copyright Prof. Alessandro Bondi, Facoltà di Giurisprudenza, Università Carlo Bo, Urbino 
Quando disponibili, i link portano alla fonte. Iniziando dalla dottoressa Chiara Bigotti si ringrazia chi ha segnalato e vorrà segnalare sentenze interessanti